“Licenziati da un robot”, così è stata tradotta da quasi tutta la stampa italiana la questione sollevata da un giornalista, Riccardo Luna, firma dell’articolo comparso ieri su AGI.it in cui è citata una inchiesta di The Verge sul famigerato algoritmo di Amazon.
‘Adapt’, questo il nome del robot mefistofelico, nient’altro è che un software di monitoraggio delle prestazioni dei lavoratori. Registra i tempi del lavoro e applica misure correttive nel caso il dipendente sia fuori dai parametri obiettivo. Non ci vuole una grande scienza per capire che questo software è una mera evoluzione del cronometro messo nelle mani di un qualsivoglia capoturno. È la vecchia pratica del taylorismo, il modello novecentesco di organizzazione scientifica del lavoro basato sullo studio dei fattori, dei movimenti e dei tempi necessari per ottenere una unità di prodotto e che influenzano il rapporto fra uomo e macchina. Il controllo pervasivo del capoturno digitale di Amazon è semplicemente la trasformazione di un potere esplicato attraverso il lavoro – e quindi le persone – in una macchina esso stesso.
È applicabile in Italia? Replicando una funzione in precedenza attribuita a una figura dell’organizzazione ed espressa dalla gerarchia, il software potrebbe essere impiegato ma solo nella modalità di solo monitoraggio, altrimenti si configurerebbe il controllo a distanza del lavoratore che il nostro diritto del lavoro sanziona ancora, nonostante le novelle introdotte dal Job Act di Matteo Renzi. Nella sua risposta ad AGI, l’azienda si è affrettata a spiegare che tale monitoraggio è motivato da ‘aspettative’ circa la produttività:
Amazon ha spiegato all’Agi che anche in Italia esiste un sistema di tracciamento e valutazione simile per ogni dipendente. Ma ha sottolineato che viene utilizzato in modo differente: “In Italia non effettuiamo licenziamenti sulla base della produttività”, afferma un portavoce. “Come altre aziende, abbiamo delle aspettative in termini di produttività. Tali obiettivi sono stabiliti oggettivamente, i dati aggiornati in base ai livelli di prestazione precedentemente raggiunti dalla nostra forza lavoro e valutati su un lungo periodo di tempo. Questo vale per ogni nostro dipendente, sia che lavori negli uffici corporate o all’interno dei centri di distribuzione” (https://www.agi.it/economia/amazon_algoritmo_licenziamenti-5390205/news/2019-04-27/)
Il licenziamento è quindi fuori discussione. Tuttavia, la giurisprudenza italiana in materia di lavoro è giunta a considerare possibile il licenziamento per scarso rendimento solo se sono individuabili dei parametri per accertare che la prestazione del lavoratore sia eseguita con diligenza e professionalità medie. Lo scostamento da questi parametri può costituire un indice di non esatta esecuzione della prestazione. Ma certamente non può essere uno scostamento puntuale a generare un licenziamento, né uno reiterato se le condizioni lavorative non sono adeguate al raggiungimento dello scopo: il datore di lavoro deve garantire che, per il raggiungimento degli obiettivi, siano state messe a disposizione adeguate risorse. Inoltre, gli obiettivi devono essere concordati, condivisi e discussi periodicamente con le rappresentanze sindacali e non possono essere imposti unilateralmente dal datore di lavoro.
Detto questo, resta da capire se i carichi di lavoro e gli obiettivi conseguenti sono congrui rispetto ai mezzi e alle risorse disposte oppure no.
Da un lato vi sono gli addetti legati alla catena della distribuzione, che ‘sparano’ codici a barre e smistano i pacchi. Il loro lavoro è attentamente vagliato e quantificato, misurato, controllato. Esattamente come in una catena di montaggio novecentesca. Il contratto nazionale dovrebbe porre un limite chiaro e inequivocabile al potere datoriale. Se negli stabilimenti di Amazon questo limite non è rispettato, allora il problema risiede altrove (nello scarso potere del sindacato, nella mancanza di controlli ispettivi).
Dall’altro lato, vi è il caso dei driver di Amazon, gli autisti, che in genere sono lavoratori facenti parte di funzioni esternalizzate, appaltate ad altre aziende: a questi lavoratori viene chiesto di consegnare circa il doppio dei pacchi di un collega che opera per i principali player della logistica. Questa attività è più difficilmente misurabile poiché, a fronte di un software che valuta e indica il percorso migliore per raggiungere la destinazione, possono succedere imprevisti non calcolabili, come un incidente stradale, il traffico, le condizioni meteorologiche avverse. I software sono progettati per razionalizzare tutti questi fattori messi insieme ma la loro affidabilità e la loro capacità predittiva è ancora lungi dall’essere pienamente sviluppata.
Qualche mese fa i driver di Amazon sono scesi in piazza in Italia per chiedere il ridimensionamento dei carichi di lavoro. Hanno chiesto inoltre un orario di lavoro chiaro con una decisa riduzione della flessibilità e del lavoro straordinario. Nelle rivendicazioni non poteva mancare il riferimento alla retribuzione, per la quale chiedevano un graduale miglioramento considerando gli enormi utili prodotti dalla filiera dell’e-commerce. I ritmi imposti dal software mettono, fra l’altro, a repentaglio la sicurezza dei lavoratori.
A poco servono i cosiddetti codici di condotta. Amazon chiede alle imprese di trasporto di rispettare parametri impossibili da raggiungere e poi sottopone loro dei codici etici con i quali dare evidenza della garanzia che «gli autisti ricevano compensi adeguati, siano trattati con rispetto, si attengano a tutte le normative vigenti e al codice della strada, e guidino in modo sicuro». Secondo Amazon «circa il 90% degli autisti termina la propria giornata di lavoro prima delle 9 ore previste e nel caso in cui venga richiesto straordinario, viene pagato il 30% in più come previsto dal contratto nazionale». Amazon poi attua «un programma di audit», da cui «risulta che i pagamenti degli stipendi sono effettuati in maniera regolare».
Più che il software, è il modello del potere datoriale che deve essere profondamente rivisto.