Dalla catena di montaggio alla catena della bici, ma oserei dire, alle catene del lavoro in bici.
Sono al Salone del Libro di Torino, durante il panel così intitolato, condotto da Paolo Griseri presso lo Spazio Robinson-La Repubblica.
[testo di Francesca Druetti]
Ho raccontato quello che ho visto. Ho raccontato quello che ho sentito, quel giorno, il giorno del processo di Torino a Foodora. La battaglia dei fattorini di Foodora e non solo, ho detto, costituisce una mobilitazione che riguarda i diritti (smantellati) dei lavoratori, ha a che fare con la complessità del mondo in cui viviamo, con le scelte che facciamo come consumatori; con il livello di controllo che abbiamo sulle cose che non vediamo ma che pesano sull’economia e sono nostre emanazioni, in qualche modo, come i nostri dati, sulla dignità delle persone e del lavoro che svolgono, a partire dalle parole che vengono usate per definirli.
Forse inevitabilmente, il dibattito è partito dalla sentenza di Foodora. Una sentenza che i fattorini hanno perso. Ho avvisato: abbiamo perso fin dal punto di vista linguistico, quando abbiamo preso l’abitudine di chiamare questi lavoratori rider. Dovremmo fare lo sforzo di usare il termine fattorini. Non per preferire l’italiano all’inglese in un intento purista, ma per ridare concretezza e senso a quello che fanno, uscendo dal mito smart della gig economy, da questa idea di grande modernità e quasi di passatempo, di disciplina sportiva, che il termine inglese sembra incoraggiare. Insieme al termine di “lavoretti”, ancora più ambiguo, fa parte di quel modo di descrivere questo lavoro che incoraggia a sminuirlo: se il lavoro non sembra una cosa seria, è più facile far passare l’idea che tutto sommato ci sia meno da tutelare, meno bisogno di diritti. Ma i diritti o sono per tutti o non sono per nessuno.
La sentenza di Foodora l’ha raccontata Davide Serafin su questo blog: i fattorini ricorrevano sostenendo che il trattamento riservato loro dall’azienda dopo le proteste dello scorso anno sia stato discriminatorio, che la loro condizione nei confronti di Foodora sia di subordinazione e che il sistema di controllo e gestione dei dati attraverso la app da cui dipende il loro lavoro sia fonte di pressione e manchi di trasparenza.
Sono questioni enormi (GIGantesche) che riguardano moltissimi lavoratori in tutta Europa, che lavorano per le diverse piattaforme di consegna a domicilio del cibo, con condizioni di lavoro tutte diverse a seconda dell’azienda e del paese in cui opera.
Oggi questo primo grado di giudizio non è riuscito a provare che i comportamenti dell’azienda siano irregolari: per l’attuale legislazione del lavoro sono ammessi, le tutele non arrivano più a garantire gli ambiti di cui parliamo. Anche quando la difesa di Foodora non ha potuto negare il controllo remoto dei fattorini tramite l’app («Ma ci sono pochi controller in control room per numerosi fattorini», è la giustificazione. Rimane inconfutabile che questo non impedisca di controllare un singolo fattorino se l’intento è punitivo), o la scarsa trasparenza dell’accesso ai dati del telefono (personale) del fattorino («Cosa volete che se ne faccia l’azienda delle foto sul cellulare del rider?», è stato detto in aula quando si domandava a quali dati personali e per quanto tempo abbia accesso Foodora).
Abbiamo proseguito parlando delle modalità con cui fattorini possono organizzare la loro mobilitazione. Per chi pensa alla tradizionale mobilitazione di fabbrica, deve sembrare molto complicato: non ci sono luoghi fisici del lavoro, i lavoratori sembrano più isolati, i contratti sono tutti diversi, c’è o ci dovrebbe essere un grande ricambio in tempi brevi. Ma in realtà le risposte e i modi si trovano: nelle modalità di sciopero ripensate, nelle assemblee autoconvocate dai fattorini, dal trovare nuovi modi e luoghi di aggregazione, sia fisici sia virtuali. In Italia e in Europa.
Dal portare comunque in tribunale le battaglie, dal chiedere consapevolezza ai consumatori: è questo il lavoro che vogliamo? È questo il servizio che pensiamo di meritare, per noi e per chi lo fornisce? Così come la filiera del cibo, o dell’energia, o dell’abbigliamento, che può essere “tracciata”, anche i servizi possono essere scelti sulla base dell’etica del lavoro: se il nostro pagare poco, pochissimo, va a discapito della retribuzione dei lavoratori, siamo disposti a fare delle scelte che lo rendano svantaggioso per le aziende?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo passare alla questione successiva. Cioè: sminuire il lavoro di una categoria (o più d’una) di persone, non sta forse peggiorando la qualità del lavoro di tutti? Se quello di fattorino è un lavoretto, perché è meno lavoro di un altro, allora quali altri seguiranno? E il part time, per assurdo, come lo consideriamo?
Senza contare che se abituiamo le persone a pensare che il loro lavoro non ha valore, perché lo potrebbe fare chiunque (per i fattorini, in fondo, basta avere una bici e un telefono), o perché domani potrebbero non essere riconfermati, nel caso dei precari di ogni tipo, difficilmente queste persone investiranno nella loro professionalità, nel loro impegno, nella passione per quello che fanno. E in tutto questo non aiuta il modo in cui molte situazioni, dai fattorini-rider ai giovani-choosy, vengono raccontate. Valigia Blu ha fatto un ottimo lavoro di fact checking sulle notizie gonfiate degli annunci di lavoro a cui “nessuno si è presentato”.
Abbiamo concluso il panel con alcune domande dei presenti, tra cui un gruppo di studenti e studentesse del Liceo Einstein di Torino, coinvolti in un progetto di Alternanza Scuola-Lavoro.
I ragazzi volevano sapere come funziona la retribuzione dei fattorini: se vengono pagati solo a consegna, se hanno una base di pagamento fisso.
La risposta non è univoca, dipende dai contratti. Abbiamo raccolto le storie dei fattorini che hanno voluto raccontarcele e le pubblicheremo su giustapaga.it: chi entra in servizio ad una certa ora, fino alla prima consegna non inizia a percepire retribuzione. Uno dei punti in discussione al processo di Torino, era il fatto che quando Foodora ha attivato una promozione che prevedeva una birra in omaggio per ogni ordine, pretendeva che i fattorini andassero a ritirarle prima dell’ingresso in turno, quindi in un tempo non retribuito, tanto o poco che fosse.
Come si risponde a questa situazione? Pretendendo che i lavoratori abbiano gli stessi diritti indipendentemente dal tipo di contratto che hanno. Pretendendo che sia chiaro e trasparente come e quanto la retribuzione debba dipendere dalle ore lavorate e dal numero delle consegne. E che la retribuzione totale risultante non sia mai inferiore a un salario minimo di 7 euro. Questo lo abbiamo scritto nel nostro Menu dei diritti della Gig Economy che è un punto di elaborazione e partenza su cui lavorare tutte e tutti insieme.