Denunciare lo sfruttamento nei campi non è affatto facile. Rischi tutto e hai paura. Paura di essere individuato, di non trovare più alcun lavoro, di essere marchiato come quello che «crea problemi». Hai paura di essere espulso perché sei diventato clandestino e non puoi più stare qui ma neanche tornare al tuo paese di origine. Sei come bloccato, sospeso. Puoi sperare solo in una sentenza di condanna dei tuo padroni, per vederti riscattare, per vederti riconosciuti i diritti degli altri.
Questo lo stato d’animo dei cinque lavoratori dell’azienda agricola Bovera, sita a Castelnuovo Scrivia, il medesimo luogo della protesta dei braccianti avvenuta nel 2012. I titolari dell’impresa hanno patteggiato sei mesi di reclusione, la pena minima per casi come questo, e ricevuto una multa di 10mila euro con la sospensione condizionale.
I lavoratori erano stati scoperti dai Nuclei dei Carabinieri mentre erano occupati nella raccolta sui campi ma erano anche impiegati presso il magazzino dell’impresa. In quella sede impilavano i cassoni della raccolta delle patate, attività quasi del tutto meccanizzata ma che prevede ancora il supporto del lavoro umano per la parte di immagazzinamento. Erano tutti lavoratori in nero e senza permesso di soggiorno. Era il 2015. I cinque erano stati poi condotti in caserma e lì rivelavano le loro condizioni di lavoro: all’inizio pagati quattro euro l’ora, poi con sempre maggiore discontinuità (il datore di lavoro rispondeva di non avere abbastanza soldi per poterli pagare, «forse domani, non lo so», diceva loro). Dovevano provvedere ai loro abiti da lavoro, alle scarpe. Il datore di lavoro non consegnava loro alcunché. Dovevano arrangiarsi.
In questi tre anni, i cinque lavoratori sono caduti in un limbo. Sono quelli che denunciano, nessuno li fa più lavorare. Senza lavoro, senza documenti. Oggetto di uno sfruttamento non ancora riconosciuto da nessuna sentenza e per giunta ridotti alla condizione di clandestinità. Avrebbero il diritto al permesso per ragioni umanitarie, dice agli organi di stampa il loro avvocato, Gianluca Vitale. Tenteranno la via del processo civile, per chiedere i danni e il pagamento di stipendi e contributi che non hanno mai ricevuto dall’azienda.
Non resta inosservata la sottile leggerezza del Tribunale di Alessandria nel giudicare reati come lo sfruttamento di manodopera straniera. Nella fattispecie, stando alle norme in vigore, in particolare l’art. 22 comma 12 del Testo Unico sull’Immigrazione (D. Lgs. 25 Luglio 1998 n.286), laddove è prevista una sanzione pecuniaria di 5mila euro per ciascun lavoratore impiegato irregolarmente, il giudice ha stabilito una multa pari a meno della metà. Nemmeno deve essere stata riconosciuta l’aggravante di cui all’art. 603-bis del codice penale, ossia lo sfruttamento del lavoro, individuato nei casi in cui sia riscontrata «la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato», « la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale […]», «la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro».
Ma evidentemente in quest’ottica la condizione di bisogno e debolezza dei lavoratori diventano un fattore di minimizzazione delle responsabilità dei datori di lavoro.